duetart home...
   
 
 
about us
 
conctact
 
find us
 
to buy
 

CORRADO CAGLI
Mostra personale


4 marzo - 31 marzo 2017

 

Corrado Cagli, uno degli artisti più geniali del XX secolo, a più di cento anni dalla nascita ancora attende di essere scoperto dal grande pubblico, che pur conosce alcuni suoi contemporanei. La ragione va ricercata, molto probabilmente, nel fatto che non scelse un particolare linguaggio ma fu un grande sperimentatore alla ricerca della sintesi ‘perfetta’, mai pago eppure mai stanco, mai tentato di fermarsi a cogliere i frutti, come pure avrebbe potuto, considerato il grande successo fin dai primi anni di attività. Avido di sapere e curioso, non si chiuse nella gabbia di un solo stile ma con tutti si misurò, con quella straordinaria capacità – che alcuni hanno ritenuto un limite –, di essere padrone di ogni tecnica (dal mosaico alla ceramica, dall’affresco al disegno, dalla pittura alla scultura, dall’arazzo alla scenografia) e di veleggiare con sicurezza ed entusiasmo, con visione chiara del porto a cui intendeva giungere,  attraverso i diversi mezzi espressivi offerti dal contesto culturale in cui si trovò a vivere.
Iniziò ad operare giovanissimo, nel primo dopoguerra, quindi attraversò gli anni del fascismo, cercando di capire come muoversi su una scena che gli sembrava troppo riduttiva per l’idea filosofica che aveva in mente; visse poi sulla propria carne gli orrori della seconda guerra per inserirsi infine, più maturo ma anche più amareggiato, nel variegato dibattito della ricostruzione, nella vitalità ansiosa di chi sperava che dalle ceneri di un regime finalmente abbattuto potesse nascere una società più attenta alle esigenze dell’uomo.
Se non si considera la sua opera nella complessa interezza, Cagli può apparire un artista confuso, sospeso tra differenti stimoli tra cui non riuscì a riconoscere la propria appartenenza. Egli seppe conservare l’eredità della tradizione e nello stesso tempo fu capace di innovare il linguaggio pittorico, anticipando la libertà della post- avanguardia. Intriso di cultura classica e Umanesimo, nutrì una passione filosofica per la matematica e la scienza, vista come strumento di conoscenza della componente cellulare della natura e dell’uomo. Ebbe un forte mondo interiore e interessi psicanalitici, soprattutto nella forma junghiana, ma riuscì a convivere con un eroico senso della storia e un’etica, tesa alla realizzazione dei valori civili, preoccupata della sorte dell’umanità. La sua laicità, lucida e razionalmente vissuta, trovò conforto in un dialogo intimo che non si può definire religioso, ma sicuramente spirituale, se ciò significa ricercare il senso ultimo – e primo – dell’essere.
Cagli sfuggì – e tuttora sfugge – ad ogni classificazione proprio per la varietà degli stili riconoscibili nel suo lavoro, che mostrano però una rigorosa unità di intento, per chi sappia vedere fin dalle prime mosse la grande ossessione, il fil rouge che le percorre: incontentabile e complesso, osservatore come uno studioso dell’Illuminismo e appassionato come un poeta romantico, fu ‘pioniere’ di un nuovo spazio, che la sua mente di filosofo già coglieva; doveva solo trovare la strada per rappresentarla in forma d’arte. Alla ricerca di risposte alla grande domanda sul caos dell’universo, affascinato dai discorsi ascoltati in America dai cognati matematici, che lui stesso sollecitava, figlio del relativismo di Einstein e della geometria non euclidea che ormai, considerati riduttivi i limiti del piano, concepiva il reale come spazio compreso all’interno della sfera, tentò in ogni modo di rappresentare la quarta dimensione. Alterando le regole prospettiche, privilegiò le linee curve, che seguono la curvatura della terra che tutto attrae con la forza gravitazionale, e creò orbite talvolta inquietanti, che paiono vortici o sinuosi labirinti, voragini che inghiottono la piccolezza dell’uomo che si perde nell’universo. E se non fosse per la vitalità e la dolcezza dei colori, ci si potrebbe perfino perdere, smarriti e impotenti. Siamo lontani dalle rassicuranti rette con cui i grandi pittori del ‘400 e del ‘500 avevano creato un ordine che non era più di Dio, ma dell’uomo e per l’uomo. Con lui la retta è solo una parte del viaggio, un segmento verso l’infinito, che resta sconosciuto e inconoscibile. Con lui l’Umanesimo e il Rinascimento sono un mezzo raffinato, recuperato con finezza, per narrare, comunque, il mistero moderno, l’inquietudine amara o angosciata del suo tempo, vuoto di certezze e lontano dallo spirito di onnipotenza terrena nato dal declino della metafisica medievale.
È salvo per lui un infinito poetico, non certo metafisico, una fantasia di infinito, che però non manda bagliori dai cieli, come lo avevano sentito i pensatori del tempo di Dante, e neppure è posto nel lontano orizzonte azzurro del piano, come devono averlo visto i conquistatori dei nuovi mondi: per Cagli l’infinito è dappertutto, come la musica che nasce da un’orchestra avvolgendo interamente una sala da concerto; dà regola al caos e contiene l’universo, e una scintilla vive in ogni uomo. Luce e materia, grido, suono o parola di ancestrale armonia, come forse devono averla sentita le prime creature, prima della cacciata dall’Eden, come forse ancora ne sentivano un’eco gli uomini che vissero i tempi precedenti alla barbarie che sconvolse la terra, seminando lutti e malvagità. L’infinito dell’artista è un sogno filosofico di pace e civiltà, di solidarietà reciproca e comunione con i propri simili, perché siamo tutti figli della medesima materia di infinitesimale perfezione, di cui è composta la cellula.
Forse un poeta più di un critico sarebbe adatto a comprendere l’arte di Cagli, così giocata tra la parola ‘pura’ e il silenzio, lo spazio campito e quello lasciato bianco, la musica delle forme e il ritmo dei volumi: metà Ungaretti e metà Borges, seppe raccontare il reale con la stessa sicurezza con cui rappresentò i labirinti dell’inconscio, e non ebbe paura di sostenere che i responsabili della storia – come i mostri dei labirinti – siamo noi.
Disse: “Non importa se non mi capiscono, non sono farfalla per entomologi” e forse davvero la critica del tempo stentò a comprendere la varietà delle prove del suo ingegno multiforme, appagato dalle frequentazioni con letterati e musicisti più che dagli incontri con altri pittori. Di volta in volta, spinto solo dal tema e dal particolare risultato che la mente sapeva già vedere in modo ideale, scelse il realismo o l’astrazione, la ceramica o il disegno; il suo eclettismo inquieto, che vide sempre sentimenti privati e desideri personali fortemente alleati alla coscienza, unica dea a cui si sentì sempre di obbedire, lo portò a continui cambiamenti di tecnica e di stile, in ragione dei risultati che desiderava raggiungere.
 È complesso comprendere le sue stagioni, riduttivo cercare di inserirlo organicamente nel cammino cronologico dell’arte contemporanea italiana anche perché, con l’obbligato esilio reso urgente dalle leggi razziali, si congelò, in un certo senso, il successo dei primi anni, che lo avevano visto legato alla Scuola Romana con la tipica, generosa capacità di condividere con gli amici il suo ricchissimo mondo interiore, visionario eppure pragmaticamente concreto. Cagli diventò così cittadino del mondo, forse più per necessità che per scelta, e con la sua vivace capacità di sintesi seppe integrare tutti gli stimoli del periodo parigino e degli anni vissuti a New York.
Già ventenne, sotto l’influenza dello zio Massimo Bontempelli (che aveva sposato la sorella della madre), era cresciuto come un intellettuale ‘globale’ e lavorando ai grandi affreschi aveva immaginato l’arte come frutto di un grande cantiere del Medioevo, in cui architetto, scultore, pittore e altri artigiani collaborassero a un’impresa collettiva, pur nel sacrificio dell’identità individuale, posta al servizio del risultato comune. L’Italia con le leggi del ’38 lo cacciava dalle frontiere, ma forse esistevano ancora un modo, un luogo per realizzare il suo grande sogno di collaborazione dialettica tra artisti.
A Parigi, dove conobbe Picasso e Chagall, dove incontrò scrittori e compositori, tra cui Stravinskij, il mondo del teatro gli andò incontro come una promessa di felicità, ma pochi mesi dopo Cagli lasciò la Francia, alla volta degli Stati Uniti. Qui incrociò le più diverse esperienze degli artisti americani i quali, senza i modelli culturali che condizionavano gli europei, stavano realizzando un’arte veramente libera e indipendente (prima tra tutte, l’action painting), da cui Cagli si lasciò solo sfiorare. La passione lo condusse ad avvicinarsi, piuttosto, al mondo del teatro, in cui l’atmosfera resa magica dalla commistione di musica, regia, scene, danza, canto, luci e costumi fusi insieme in un unico progetto lo attraeva con un richiamo più coinvolgente e determinante, facendogli intravedere la possibilità di realizzare, proprio attraverso la scenografia, la quarta dimensione di cui si portava dentro il pensiero fisso.
La scelta di arruolarsi con l’esercito americano per liberare l’Europa dall’occupazione nazista, però, interruppe gli incontri con i cognati matematici e i nuovi amici delle diverse forme d’arte e lo portò a percorrere un cammino da cui non potrà più tornare indietro: la scelta di stare dalla parte della giustizia e della libertà, anche se ciò comportava il rischio di perdere la propria vita perché altri vivessero. Dopo le campagne militari e soprattutto dopo la tragica esperienza di Buchenwald, Cagli non sarà mai più lo stesso: lo sguardo lucido fissato sui volti rappresi nella morte o sui morenti, capace di creare disegni di straordinaria denuncia, resterà per sempre negli occhi dell’artista come una tragica domanda sulla degradazione dell’uomo e i limiti estremi a cui può portare la barbarie e il silenzio delle coscienze. Non finirà mai del tutto il tempo del realismo magico a cui lo aveva educato Bontempelli, ma sarà ormai accompagnato sempre da due sentimenti indelebili: la certezza di non appartenere a una parte di umanità, cieca, rozza e spietata, e il desiderio di rifondare un uomo nuovo, capace di ritornare alla purezza delle origini.
È difficile leggere correttamente l’opera di Cagli perché a tutto si dedicò e lo fece contemporaneamente, portando avanti diversi progetti e ricerche e tenendo le redini di un destriero vitale e mai esausto, che aveva però la strada ben segnata, nota solo al cavaliere. Ritornato negli Stati Uniti si avvicinò al mondo del balletto e del teatro, avviando con Balanchine un’intesa che lo accompagnerà tutta la vita, ma il desiderio di tornare in Italia, di riappropriarsi della propria identità e delle radici che sentiva fortissime, familiari e culturali, fu un richiamo irresistibile. Nel 1936 Bontempelli, nella presentazione di una mostra del nipote, aveva affermato: “Il solo mezzo di non morire è ricominciare dal niente”. E così Cagli fece, deciso a ‘rifare’ un Umanesimo – nel senso di ‘tempo dell’uomo’ – sul terreno inesplorato e inquieto della psiche umana che poteva solo cercare di conoscere, così segnata da gravi deviazioni, fallimenti e anfratti umbratili, ferito dominio del subcosciente più che della ragione.
Dunque si dedicò a tutto e spesso in contemporanea, ma due ambiti lo accompagnarono in modo costante, e sicuramente felice: la produzione dei disegni e le collaborazioni teatrali.
Di fronte a tanta materia destinata a scomparire nel cammino millenario delle civiltà dell’uomo, come dimostrano i resti archeologici di numerose città antiche, che non ci hanno lasciato tele e legni, Cagli affidò il suo diario più intimo alla carta dei disegni, destinata a durare più a lungo. Se in pittura aveva scelto la soluzione tonale, che affida al colore – privo di disegno preliminare - il ruolo di definire i contorni, il disegno fu la preoccupazione primaria di Cagli che attraverso questo, come la parola nuda dei poeti ermetici, ottenne essenzialità e sintesi. Nella composta armonia di un tratto sicuro, senza ripensamenti, condotto sulla scia di una musica interiore, convivevano sogno e ragione, fiaba e storia, mito e inconscio. Le forme classiche – etrusche, mediterranee o perfino africane – raccontavano il suo tempo con segni decisi e il passato non conosceva rimpianto, ma era elegia della vita che si rinnovava attraverso nuovi interrogativi; nei disegni non ci fu potenza di fuoco o essenza di terra, ma la trasparenza dell’acqua che raffreddava il giudizio e faceva germogliare dalla capacità meditativa della ragione il tremore sull’ignoto e sul dubbio, l’eterno compagno.
Le collaborazioni teatrali furono il campo dove trovò maggiore compiutezza l’intelligenza libera di Cagli, mai stravagante o scomposta, policroma e sempre misurata nella sconfinata conoscenza di diversi saperi: dopo la prima collaborazione newyorkese con Balanchine, il teatro divenne il suo ambiente naturale, dove lui fu più se stesso e poté esprimersi con la fiducia di essere totalmente compreso, utile unitamente agli altri. Nelle collaborazioni che dureranno fino agli ultimi momenti della vita, lavorò a fianco di registi, direttori d’orchestra, coreografi come aveva desiderato fin dagli albori della sua vita di artista, offrendo le sue molteplici abilità al fine di una rappresentazione frutto di un discorso corale, nato dal confronto e dalla dialettica, che presto per lui diventava un’amicizia. Per l’unità di componenti visuali, plastiche e dinamiche, il teatro gli offrì la possibilità di realizzare scenografie attraverso le quali poté concretizzare – almeno sulla scena, se non nello spazio pittorico – la quarta dimensione che andava cercando, inserita nell’atmosfera rarefatta e immateriale della musica, che aggiungeva ai ragionamenti sullo spazio quelli relativi alla dimensione temporale.
Coerentemente con la ricerca che andava compiendo, mise in scena le sue ‘forme’ tipiche: i fondali erano come le opere pittoriche, rispecchiavano le Metamorfosi o alcuni quadri astratti, e i costumi rinviavano alle figure che popolavano i suoi lavori di pittore, sia che raccontassero il mito, sia che indagassero l’anima dell’uomo, sospesa tra la dimensione storica con precisione di citazioni iconografiche e la dimensione atemporale, in cui i personaggi, al di là del piano reale o surreale, assomigliavano sempre a creature che tentano, con la leggerezza dell’abito e la levità delle mosse, di contrapporre energia nuova alla ricerca esistenziale dell’uomo.
Tutto quello che usò nelle scene e nei costumi in trent’anni di partecipazione alla messa in scena di opere e balletti, infatti, lo ritroviamo nella produzione libera da impegni teatrali. Cagli prediligeva lavorare ‘per cicli’, con i quali tentava di affrontare con rigore il problema che di volta in volta gli diventava urgente: fu un eclettismo solo apparente il suo, solo esteriore, perché sempre, con metodo appassionato di scienziato, indagò il rapporto che lega la materia alla forma, per risalire alle origini stesse della materia, da cui le forme nacquero per la prima volta. Tanti di coloro che lo avevano preceduto gli furono maestri e ispiratori, a tanti si avvicinò – e ne rifece lo stile – non certo con la presunzione di superarli, ma con l’umiltà, la devozione e la fiducia di trovare nel mezzo espressivo di un altro la propria lettura del reale, di apprendere la chiave che lo avvicinasse alla rappresentazione della quarta dimensione che andava perseguendo.
Operò in clima di una magica alchimia tra tradizione e memoria, tra classicismo e innovazione, cercando – lontano dalla lotta iconoclasta dei suoi contemporanei – di trattenere dall’antico tutto ciò che di utile poteva trasmettere all’uomo del suo tempo. La barbarie aveva urgente bisogno di bellezza, ma si trattava di riportare in vita un’estetica che sapesse parlare a chi era sopravvissuto alle dittature e agli stermini, a chi, per volontà di lanciarsi nell’ebbrezza del progresso e del benessere, rischiava di dimenticare la degradazione che avevano attraversato. Cagli sapeva che si può costruire il futuro solo con la conoscenza critica del passato, e che solo la condanna esplicita della barbarie può preservare dal rischio di esserne ancora vittime, se non addirittura colpevoli.   
Filosofo e scienziato, storico e poeta, sovrapposte le lenti dello studioso in un unico cuore, Cagli sapeva che la tradizione è utile a patto che sappia indicare la via verso il futuro e che nel ‘primordio’, la forma originaria della creazione, sono riposti i segreti che consentono di leggere i miti e l’arcano misterico delle religioni che hanno cercato di comprendere il mondo e di toccare, almeno con il pensiero, il mistero degli dei. Artista vicino ad Ovidio per il fascino delle metamorfosi e la continua, osmotica corrispondenza tra natura e uomo, fu ‘alessandrino’ per la dolcezza cautamente ironica e le scelte raffinate che non ebbero mai tentazioni di manierismo, perché per lui l’importanza della forma non fu mai fine a se stessa ma funzionale al contenuto, e fu prevalentemente testimonianza del dubbio e della ricerca.
La sezione aurea restò per lui il cardine dell’equilibrio e della proporzione ma Cagli, figlio del ‘900, conobbe anche la fatica della relatività, che segnò la definitiva perdita delle certezze anche geometriche: la ricerca della quarta dimensione rappresentò il desiderio – il tentativo – di porre l’uomo nella corretta luce di una prospettiva capace di tenere conto della complessità del reale, che abbracciava il passato con la necessità di possedere strumenti per comprendere il futuro, anticipandolo. La proposta cubista non gli era bastata, con la frammentaria rappresentazione di due, al massimo tre punti di vista: lui desiderò comporre in una sola sintesi tutte le visioni possibili, che oltre a larghezza e lunghezza mostrassero sul piano il lato anteriore e posteriore in un’unica immagine, e volle che risultasse unitaria e armonica, e non offerta come pezzi di specchio rotto capace di riflettere solo istanti della rappresentazione.
La critica non comprese come fosse possibile per lui realizzare sia opere figurative che astratte, in un momento in cui gli artisti restavano fedeli – fino alla ripetitività – allo stile che li aveva connotati agli occhi dei critici. Per Cagli, che li considerava “momenti diversi dello stesso divenire”, fu sempre una questione di scelte dettate dallo stato d’animo: nell’astrazione prevaleva la preoccupazione per le masse, i volumi e il colore, mentre nella figurazione dovevano emergere le figure, l'ambientazione e l'architettura. Come il poeta può scegliere se scrivere elegie o inni sacri, che sono ‘generi’ testuali differenti, così l’artista può decidere di utilizzare scritture pittoriche diverse in funzione dei diversi racconti: aveva poco più di vent’anni l’artista, quando teorizzava questa libertà, a cui rimase fedele per tutta la vita. Il ‘genere’, quindi, era dettato dal contenuto: per i ritratti, le visioni della guerra, la rievocazione storica o le scene di argomento sociale scelse il realismo, mentre privilegiò l’astrattismo ogni volta che dovette rappresentare una domanda esistenziale, un dubbio, una ricerca. Storia e filosofia trovarono così la loro diversa voce, intersecata alla matematica, la terza – o prima – grande passione di Cagli. I disegni furono sia realistici che astratti, e li realizzava di notte: erano la sua riflessione solitaria condotta nel silenzio del mondo, accompagnato solo dalla musica.
            I temi – per la figurazione come per l’astrazione – furono mitologici, biblici e storici, ma nelle pitture e nei disegni incontriamo anche amici della vita quotidiana, interlocutori privilegiati con cui seppe condividere le sue riflessioni sull’arte e sulla psicanalisi, sulla riflessione etica di stampo ciceroniano su ciò che è ‘giusto’ e ciò che è ’utile’.
Nel suo immaginario fitto di elementi tratti dai culti animisti o dalle religioni primitive, i miti classici furono reinventati con inquietudine novecentesca, con l’ansia morale di un secolo devastato dalle guerre sui civili e dagli eccidi di innocenti; erano segni iconici di una ricerca à rebours delle radici, per conquistare ali che non fossero da Icaro; qui un daimon interiore si metteva in ascolto del dio che, al di là del silenzio evidente, sembrava voler dire qualche parola arcana all’uomo che sapeva porsi in ascolto. Il mito consentì a Cagli – mosso dall’esigenza di recuperare verità non alterate da sovrastrutture sociali – di avvicinarsi agli archetipi junghiani, che ricollegano l’uomo di oggi agli antenati del ‘primordio’, all’archetipo primigenio che riconduce alla realtà originaria dell’uomo. È lì che l’artista desiderò tornare, mostrando il cammino che l’uomo poteva percorrere per riemergere dalle degradazioni e dalle aberrazioni del secolo del progresso: fiducioso nelle capacità di risorgere e ricostruire dopo tanti orrori, segnò la strada a partire dall’innocente ‘primordio’, cellula primitiva di perfezione e  purezza; riattraversando come testimonianza di amore e di stima le esperienze dei grandi del passato, tese a ricreare un Umanesimo dell’uomo, in cui non c’era un dio ma neppure dolore esistenziale. Se tutto il creato è divino, la forma più alta di incontro tra l’uomo e dio è la Natura, che Cagli studiò con ossessione di scienziato e passione di matematico per trovare la chiave, la formula che disvelasse la dinamica genetica che aveva originato la vita.
Il ciclo ‘Impronte’ fu un atto di devozione alle tracce della storia dell’uomo, la commossa testimonianza dei segni lasciati lungo il cammino, ma ben prima Cagli, con il lavoro sui Tarocchi e i segni zodiacali della fontana di Terni (1933, aveva poco più di vent’anni) aveva colto il fascino arcano e misterico della lettura del futuro, guida pur fuggevole nel labirinto della mente e del tempo. Se l’uomo si perderà, sarà inevitabile il suo autodistruggersi, o un dissolversi dolce per opera di un dio pietoso, che conduca attraverso la metamorfosi alle forme della natura, in cui già alcuni personaggi dei miti antichi avevano trovato la pace.
Numerosi nel passato di Cagli furono i temi tratti dall’Antico Testamento, in cui i personaggi emersero in chiave contemporanea, a rimarcare la coscienza della lotta, della resistenza, del dubbio. Adamo ed Eva che fuggono dall’Eden, vergognosi e umiliati, Giuditta e Oloferne, i Profeti, colti nello stupore del loro essere ‘vaso’ della voce di Dio. Qualcuno volle vedere nel piccolo Davide che vince il gigante Golia la risposta del popolo ebraico – o di altre minoranze oppresse – alle persecuzioni di quei terribili decenni della nostra storia, ma nei percorsi mentali di Cagli, filosofici ed etici, è più probabile che il tema, avulso dal riferimento a fatti precisi, alludesse in modo teorico, e quindi più ampio e assoluto, a qualunque forma di sopraffazione frutto di ignoranza e arroganza di quello che si crede più forte, destinato a soccombere di fronte al piccolo eroe, guidato solo dalla sua intelligenza e dalla sua purezza.
Ma fu specialmente negli ultimi anni, grazie anche alla frequentazione assidua con Don Pasquale Macchi, segretario particolare di Papa Paolo VI, che per conto del Pontefice con acuta sensibilità andava collezionando opere di tema sacro per i musei Vaticani, che Cagli sentì il bisogno di raccogliersi in riflessione silenziosa – e lo fece ancora una volta attraverso il disegno, il luogo più intimo e privato delle sue meditazioni – sui grandi e piccoli Santi dell’agiografia e soprattutto sulla Madonna, di cui studiava con tratti plastici e aerei proprio la verginità, la gravidanza e la maternità, intese non come mistero trascendentale e dogmatico ma come eventi di irresistibile coinvolgimento umano: infatti, alla sua visione laica pur capace di rispetto per il mondo cattolico, testimoniavano all’uomo la misteriosa vicinanza di Dio. E poco importa se l’artista fu lontano dalla fede: conta il fatto che seppe utilizzare i personaggi che popolano i Vangeli e la vita della Chiesa non in chiave simbolica ma fortemente storica, riconoscendo ad essi il valore di icone potenti di una strada segnata per percorrere un cammino metafisico da cui si sentiva, al di là del suo scientismo illuminista, fortemente attratto; ciò che resta negli occhi di chi osserva questi disegni è che Cagli riconobbe la forza della fede di chi – come Don Macchi, per esempio – aveva trovato nella scelta religiosa la risposta alla domanda che egli aveva affrontato con altri strumenti.
Ancora una volta, dunque, utilizzò il mezzo degli altri – in questo caso uomini e donne resi santi dalla visione religiosa – per individuare la sua strada, per capire il suo sentimento e il suo dubbio. Sfilano immagini di rara potenza: si stenta a credere che non siano l’opera di un artista neofita serenamente convertito. Ma il San Giovanni di Cagli racconta il dolore della perdita di un amico e la fatica della stesura dell’Apocalisse, che attende la mano nascosta nel manto; i Santi Pietro e Paolo mostrano l’incredulità di fronte al grande compito cui sono chiamati; le immagini di Maria – non solo donna comune, è evidente – rimandano all’iconografia dotta o popolare, oggetto di devota consolazione. Cagli non conosce consolazione fideistica, ma conosce il bisogno e conosce il dubbio; non partecipa alla chiamata di Pietro e Paolo, o di tanti altri apostoli e santi, che guardano lo spettatore con occhi smarriti o sereni, ma conosce la volontà dettata dalla sua morale di impegnarsi per l’uomo e con l’uomo; conosce solo da intellettuale la vicenda di Cristo e il suo annuncio, eppure affida alla memoria della carta numerose immagini del suo volto soprattutto nel momento in cui appare trionfante sulla morte, nelle vesti radiose di colui che ha vinto, nonostante il riferimento alla croce, spesso ben visibile sulla pagina bianca. Grazie alla matita che procede sicura, le sofferenze del Calvario sono lontane e superate, il Cristo-uomo di Cagli ha la testa cinta da raggi di luce e domina il foglio con la sua presenza serenatrice. L’artista guardava impotente l’uomo del suo tempo e vedeva con angoscia dilagare la violenza e la cattiveria; nel momento della ripresa economica degli anni ‘60, era già chiaro che le scoperte della tecnologia e le conquiste in ogni campo non sarebbero state in grado di rendere migliore l’uomo, che diventava strumento e vittima invece che il fine stesso del progresso e dello sviluppo sociale. Il Cristo di Cagli è un uomo ‘risolto’, portavoce di un annuncio credibile, che forse potrebbe vincere le resistenze dell’artista, se questi non fosse così intriso di materialismo meccanicistico che gli impedisce di immaginare una risposta metafisica – con proiezione escatologica – alla domanda esistenziale dell’uomo. Il Cristo di Cagli indossa una corona di luce, ma sono fiamme vicine alle ghirlande di fronde dei più bei soggetti delle “Metamorfosi”: la resurrezione narrata nei vangeli nasce dalla mano che disegna come la trasformazione del dio nella materia originaria, pura e perfetta, senza colpa e senza dolore; è ritorno del dio agli elementi primordiali nati con la nascita del mondo, che la scienza non può immaginare creato in sette giorni secondo il racconto biblico; il filosofo, il matematico, il fisico delle trasformazioni preferiscono pensare ad un lento processo cellulare della materia, a cui è possibile che l’uomo cinto di rami  stia tornando. Il Cristo di Cagli appartiene alla coscienza dell’artista come un’idea filosofica ricorrente, la rappresentazione di un mistero di cui ha penetrato il segreto, e uno sguardo ignaro che si trovasse a percorrere le raccolte di disegni con soggetto religioso non potrebbe immaginare che si tratta dell’opera di un artista non credente, tale è la convinta commozione che cattura gli sguardi trasfigurati, tale è il senso di umanità ‘altra’ che avvolge i personaggi.  
Religione rivelata o entità misteriche, animismo, panismo, cellula del ‘primordio’ o materia che nella metamorfosi trova il compimento: tutto gli suggerì interrogativi, tutto, in definitiva, contribuì a renderlo umile perché privo di risposte, saggio e giusto, lucido e ricco di umanità; tutto è entrato nella sua visione di artista globale, la levità dei balletti e l’orrore dello sterminio, i regni della matematica e i mondi della fede nelle diverse forme, perché ogni idea, ogni intuizione fu una strada utile da percorrere, per avvicinarsi alla visione che lo accompagnava dalla giovinezza e alla desiderata verità.
Per la completezza della visione artistica e la poliedrica somma di interessi e campi di azione, Cagli colmò di luce e di linfa quarant’anni di arte italiana e fu un fondamentale punto di riferimento per gli artisti della sua generazione. La mostra di Pordenone “Cagli e il suo magistero”, organizzata nel 2010, centenario della nascita, lo pone come centro di un sistema culturale complesso e articolato, in cui egli fu modello e generoso compagno di viaggio: i fratelli Afro e Mirko Basaldella, Guttuso, Mafai, Capogrossi, Baj, Dova, Scialoja e altri ancora, seguendo la sua personalità di caposcuola, ne furono profondamente influenzati. Davvero chi ebbe la possibilità di incontrare Corrado Cagli mentre interrogava l’uomo del suo tempo e inseguiva la quarta dimensione, in cui collocarlo compiutamente per rispecchiarne la complessità, chi ebbe la possibilità di vederlo lavorare, di sentirlo parlare, non poté mai più essere lo stesso.

Isabella Colonna Preti
 

duetart gallery

vedi opere
Corrado Cagli